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lunedì 8 maggio 2017

Recensioni Narrativa: IL VILLAGGIO NERO di Stefan Grabinski




Autore: Stefan Grabinski.
Anno: 1919-24.
Genere: Antologia Horror.
Editore: Edizioni Hypnos, 2012.
Pagine: 290.
Prezzo: 21,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Grande riscoperta firmata Hypnos che nel 2011, probabilmente a caccia di autori inediti da pubblicare in Italia, incappa in un'edizione inglese intitolata The Dark Domain, ne prende due storie, le traduce dall'inglese e le pubblica sulla propria rivista in vista di un progetto a più ampio raggio (pubblicato l'anno seguente). Dietro al volume, che attira subito le attenzioni per esser associato a un autore definito dalla critica specializzata dell'epoca (tra cui l'italiano Enrico Damiani) il Poe Polacco, c'è il misconosciuto Stefan GrabinskiL'occasione si fa dunque propizia per presentare al pubblico di appassionati italiani una novità assoluta, un autore scandalosamente ignorato dalla nostra editoria e non solo da questa. Dal 1928, quando furono pubblicati in Italia due suoi racconti su La Stampa di Torino (i primi in assoluto a esser esportati all'estero nell'intera produzione del polacco), nessun testo dell'autore è mai apparso in Italia. Non solo, scarsamente tradotto all'estero (un solo volume in inglese), è stato nel corso degli anni ignorato del tutto da volumi come I Grandi Maestri della Letteratura Fantastica (Edipem Edizioni, traduzione francese) o Il Dizionario dell'Orrore della Newton curato da Pilo, persino non menzionato al 9 maggio del 2017 sulle pagine italiane di wikipedia. L'indovinatissima scelta di Andrea Vaccaro e di Andrea Bonazzi pone così termine a un centenario silenzio privo di motivazioni e ingiusto sia verso l'autore che verso gli appassionati del genere (privati dell'estro di un maestro che meritava palcoscenici ben più importanti di quelli a cui è stato relegato). Una panoramica, a mio avviso, ancora da completare, ma comunque già meritevole di lode nel panorama editoriale legato alla divulgazione di testi fantastici e che ha addirittura portato altri editori, Stampa Alternativa, a proporre "nuovi" volumi legati a questo scrittore, con l'uscita nel 2015 de Il Demone del Moto: Racconti Fantaferroviari. Un improvviso interesse che non è passato inosservato al recente saggio Guida alla Letteratura Horror (Odoya, 2014) di Gian Filippo Pizzo, che ha tributato (addirittura) una scheda a Grabinski passato da esser ignorato a esser catalogato come uno dei maestri assoluti del genere. Un cambio di orientamento imputabile, senza ombra di dubbio, alla riscoperta operata dalla Hypnos che ha pertanto reso giustizia a un piccolo grande scrittore. Ci piace allora immaginare un Grabinski che, per una volta tanto, sorriderà compiaciuto tra le nubi che coprono il regno dei cieli e che possono esser squarciate dallo sguardo dei sensibili proprio come il protagonista di uno dei suoi celebri racconti. Una piccola grande soddisfazione, penso di poter dire, per una realtà non certo faraonica come quella della casa milanese facente capo ad Andrea Vaccaro.

Un cenno alla biografia di Gabrinski, indispensabile per comprendere la portata dei racconti. Autore di lingua polacca, nato a Kaminonka Strumilowa nel 1887, città attualmente confinata nello stato Ucraino (Kamianka-Buzka) ma all'epoca facente parte dell'impero Austro-Ungarico, di origini borghesi. Contrae fin da giovanissimo una grave forma di tubercolosi ossea che lo accompagnerà per tutta la vita, portandolo alla morte in età non troppo avanzata (non ancora cinquantenne). Carattere schivo, soprattutto in età avanzata a seguito del fallimento matrimoniale con una moglie che lo abbandona dopo quattro anni di convivenza (aspetto che si riverbererà nella produzione narrativa con figure di donne che tolgono letteralmente la giovinezza e la spensieratezza ai loro amanti), si interessa soprattutto di filosofia e letteratura, vivendo spesso lontano dalla confusione e poco stimolato dai confronti con i colleghi di penna. Viene in particolare attratto dalle teorie di Henri Bergosn che cerca di rimodulare interessandosi anche di psicanalisi, parapsicologia e occultismo. Come molti colleghi legati alla letteratura fantastica anche Gabrinski vive in funzione di un'altra vita, la vita quella vera, la reale (che è in verità quella che non si vede, la spiriturale), quella in grado di sopravvivere alla decadenza del corpo. Lo si capisce dai suoi studi, ma soprattutto dalla sua narrativa, continuamente proiettata al di là del materialismo con uno sdoppiamento del piano esistenziale che si rispecchia anche, spesso e volentieri, nello sdoppiamento materiale dei vari protagonisti, come se l'anima degli stessi si distaccasse dal corpo e, incosciente di questo, vivesse di vita propria (una situazione, se vogliamo, che ricorda un po' certe tematiche affrontate dal surrealismo di Gogol).
Si laurea piuttosto giovane in letteratura polacca e a ventitre anni si ritrova, per vivere, a fare il professore nelle scuole secondarie polacche e austriache (per un biennio lavora a Vienna). Debutta in veste di narratore con un'antologia che si autofinanzia e che passa inosservata, peraltro firmata sotto pseduonimo. Devono poi trascorrere nove anni per veder uscire una seconda antologia. Corre l'anno 1918 quando da alle stampe Sulla Collina delle Rose. Scrive molti racconti, forma che sembra prediligere per intessere sottoforma di scrittura creativa le sue paranoie e le sue visioni filosofiche e metafisiche della realtà (vista quale falsa e irreale, totalmente piegata da una ignota e mutevole da una persona all'altra). E' però con le successive quattro antologie che conquista un certo successo in patria, soprattutto con la terza intitolata Demon Ruchu (Il Demone del Movimento) interamente dedicata ai treni e alle stazioni come luoghi in cui si palesa l'orrore in un contrasto tra progresso e tradizione. Un testo in cui la posizione dell'autore si rivela legata, o quanto meno simpatizzante, a un nostalgico conservazionismo come risposta a un (mendace) progresso ritenuto tale solo dal superficiale e apparente approccio capitalistico.
Tenta anche la via del romanzo lungo, con poco meno di una mezza dozzina di testi tutti incentrati sul genere fantastico (da cui non si è mai allontanato nella sua produzione), per non dire horror. Si tratta di opere non tradotte in italiano che, a detta di molti (la mia sensazione è che tuttavia vi sia stata un'opinione poi ricalcata da tutti senza che si sia in realtà letto i testi), sarebbero appesantite da un'atomosfera occulistica e teosofica tipica di certi scrittori del blocco fantastico inglese. Testi pertanto di gran lunga inferiori rispetto alla narrativa breve, secondo questi critici. Opinione quest'ultima su cui non possiamo esprimerci, non avendo letto i romanzi oggetto di esame, ma che ci pare molto strana alla luce dei racconti letti. Grabinski infatti, leggendo il lotto che va sotto il titolo de Il Villaggio Nero, non scende mai in tematiche o argomenti tipici di certi movimenti esoterici, restando più su un piano psicoanalitico o, in misura minore, squisitamente weird.
Caduto in un oblio ingiustificato, Grabinski, uomo poco avvezzo ai salotti frequentati da intellettuali e ben pensanti, pur gradendo viaggiare, si rinchiude negli ultimi anni in un isolamento tipico di suoi molti personaggi (a partire dallo scrittore, una sorta di suo alterego, protagonista del racconto L'Area) morendo abbandonato da tutti nell'indigenza e in povertà, ma avendo la soddisfazione di aver legato il proprio nome anche ad alcuni drammi teatrali e addirittura a una sceneggiatura di un film tratto dal racconto L'Amante di Szamota da lui stesso adattato, nel 1927, per la regia di Leon Trystan.

Il volume che ci apprestiamo ad analizzare è una libera selezione operata dai curatori, che hanno pescato da sei diversi testi offrendo al pubblico un lotto di dodici racconti compresi tra le trenta e le dieci pagine circa, scritti tra il 1919 e il 1924.
Il genere è squisitamente del terrore, più che fantastico. Tutti i testi hanno risvolti perturbanti, come direbbe Freud. Anzi, Grabinski si diletta nell'inserire in molte opere più di un elemento perturbante dotando così i racconti di più sfumature sospese tra il surreale, la follia vera e propria e il paranormale (di rado però di natura esoterica, piuttosto direi pseudoscientifica o metafisico/filosofica).
Lo stile è variabile. Ci sono racconti scritti in prima persona e altri in terza. Ciò che non cambia è la cura, estremamente parossistica, con un modo di esporre i fatti inizialmente lento e poi via via sempre più seducente (con descrizioni ai limiti del poetico e mai volgari, pur rischiando molto su questo versante) al punto da non distogliere l'attenzione del lettore e nel coinvolgerlo nella lettura fino alle sempre terribili ed efficaci rivelazioni finali. Grabinski è molto abile nel chiudere in modo adeguato le varie storie, che difficilmente si scompongono e, anzi, hanno sempre epiloghi all'altezza della situazione al punto da salvare, in alcuni casi, anche il resto del testo.
Il libro, per quanto riguarda la cura dell'editore, è buono. I refusi sono pochissimi e ininfluenti, manca magari una copertina di richiamo (ma questo poco importa) e una saggistca più approfondita (comunque interessante la critica di China Mieville). L'impaginazione è sufficiente, la grandezza dei caratteri medio grande così da non rischiare di accecare chi legge.

Il volume pubblicato da 
STAMPA ALTERNATIVA
nel 2015 in cui sono compresi
i primi due testi dell'antologia Hypnos. 

Passiamo ora all'analisi nello specifico dei contenuti. Si notano molti aspetti ritornanti nella narrativa di Grabinski, specie nei racconti raccolti dalla Hypnos. La prima cosa che salta agli occhi è il tipo di approccio che l'autore polacco ha con il fantastico e il terrore. A differenza di un autore come Lovecraft, che parla di mostri provenienti dallo spazio o da altre dimensioni, ovvero di Machen, che parla di un velo che separa la vera realtà da quella fittizia e che invece l'uomo si ostina a considerare come quella reale, Grabinski introduce l'elemento paranormale, con spirito filosofico e persino metafisico, facendolo generare dall'uomo stesso. L'orrore nasce dall'interno dell'animo, un po' come nel celebre racconto L'Uomo della Sabbia di Hoffmann (peraltro citato, pur se indirettamente, ne L'Area, con un protagonista che resta a scrutare cosa succede nel palazzo dirimpettaio), quale materializzazione concreta delle ossessioni e delle paure che albergano nella mente. Un meccanismo che si rafforza sempre più a mano a mano che i protagonisti cercano di sottrarsi alle loro paure o alle loro visioni, venendo così invischiati e assuefatti in un maelstrom che li condurrà alla sopraffazione. Grabinski non muta i profili dei suoi personaggi, quasi tutti dei perdenti (con alcune rare eccezioni, si vedano Il Bianco Lemure o A Casa di Sara). Abbiamo pertanto delle figure l'una ricalcata sull'altra, quanto a profilo psicologico. Sono dei solitari, dei nostalgici, che vivono legati al passato (emblematico il bellissimo L'Engramma di Szatera), il più delle volte studiando materie e sostenendo tesi aveneristiche, in quanto poco interessati alla realtà, non accettata o comunque vista come una costrizione esistenziale da cui si deve fuggire arrivando persino a rinnegarla o comunque a metterla in dubbio al cospetto di altre di ideazione personale. Cos'è che può dirsi reale? Si chiede spesso l'autore . La realtà è davvero tale o è un'illusione soggettiva partorita da ogni singolo cervello? Elucubrazioni degne di protagonisti che rasentano la pazzia, derisi o comunque non creduti da chi hanno intorno, talvolta con precedenti psichiatrici (il protagonista de Saturnin Sektor) o comunque che si indirizzano a psichiatri o neurologi per esorcizzare il loro dramma, ma non per questo dei minorati (si direbbe piuttosto il contrario). Soggetti che vivono in atmosfere ossessive, a tratti morbose, che non tardano a divenire claustrofobiche sotto l'effetto di fobie sempre più invadenti e il cui sbocco finale è, talvolta, l'omicidio, talaltra la perdita del senno, in un pessimismo nero da cui non ci sono speranze di redenzione. Bellissimo, sotto questo profilo, Lo Sguardo, con un protagonista che, a seguito di un trauma (il suicidio sotto un treno della fidanzata), inizia a temere tutto ciò che può nascondersi dietro un angolo di un'abitazione, dietro una porta (il collegamento va alla porta di casa lasciata socchiusa dall'amante prima di andare incontro alla morte) e persino ciò che potrebbe avere alle spalle. Un'ossessione che lo risucchierà in una spirale da cui non avrà via di fuga, costringendolo persino a rivoluzionare l'arredamento della propria casa per renderla sempre più simile a uno spazio aperto in cui nessuno potrebbe mai nascondersi senza passare inosservato. Una paranoia, questa per gli arredamenti da modificare, che si verifica anche ne La Stanza Grigia. Qua a innescare la rivoluzione dell'arredamento è la convinzione, frutto di un sogno ricorrente, che poltrone, armadi e scrivanie siano impregnate dell'energia psichica lasciata dal precedente locatario (un uomo triste) con estensione di questi influssi negativi e opprimenti in tutta la casa. In entrambi i casi Grabinski chiude in modo tragico, con epiloghi orrorifici che fanno balzare sulla sedia i lettori.

Molti i temi ritornanti, dicevamo... Abbiamo già citato il rapporto “tra la realtà e l'immaginazione", a cui fanno seguito il concetto relativo del tempo (affrontato in Saturnin Sektor) fino all'idea dell'illusione del movimento e della velocità (argomenti centrali nel metafisico Il Demone del Movimento, in cui si tratta anche il tema della dissociazione mentale) e a quello della persistenza, sotto forma ectoplasmatica, sul piano reale sia degli eventi legati al passato (L'Engramma di Szatera) sia alla possibilità di concretizzare nella realtà, come fatti materiali, i pensieri (L'Area) o i sogni (Il Villaggio Nero, dove si assiste alla materializzazione di un coltello che passa dal sogno alla realtà).

Il livello medio degli elaborati è più che interessante, possiamo addirittura dire molto omogeneo con alcune punte costituite dal lovecraftiano Il Villaggio Nero e dal più originale L'Engramma di Szatera, entrambi caratterizzati da un erotismo malato, a spiccare in un lotto altamente qualificato. Nel primo caso si anticipa, in un certo qual senso, la contrazione di malattie come l'Aids (si parla di lebbra) a seguito di un rapporto sessuale. Grabinski in questi due racconti offre delle pennellate di onirismo che gli valgano, per quel che ci riguarda, l'epiteto di grande maestro. Classico il primo con la bellissima descrizione di un villaggio da incubo dove domina il colore nero, con uccelli necrofagi e strani individui che vagano coperti da dei cappucci in un olezzo che stordisce l'olfatto e che avvolge una serie di abitazioni dalle finestre sprangate. È il sonno a condurre l'uomo in questo spazio mortale, dieci minuti appena di incoscienza gli sono sufficienti a varcare involontariamente un confine non ben identificato (una vera e propria realtà parallela) per poi ritornare alla realtà completamente travolto sia nella mente che nel corpo (ha un morso su una guancia). Uno sviluppo che sarà riutilizzato ne La Vendetta degli Elementi con un caso di possessione, più o meno diabolica, subita in pieno sogno, a coronamento di una vendetta messa in atto da degli spiriti elementali (creature a metà strada tra il regno animale e l'uomo e di cui farebbe parte anche il fuoco, trattato come una forza intelligente) contro la loro nemesi (il coraggioso capo dei vigili del fuoco) che verrà per questo trasformata (ancora una volta senza capacità di libero arbitrio) in uno strumento di distruzione (ritorna il tema del doppio che si dissocia e vaga senza controllo per il diretto interessato).
Ne L'Engramma di Szatera si parla invece di necrofilia vera e propria, con un racconto che probabilmente sarebbe piaciuto a Ballard (penso al suo contorto e controverso Crash). Grabinski infatti caratterizza la storia con una fortissima componente nostalgica. Protagonista è un capostazione che rimpiange la chiusura di una vicina stazione e la perdita di un amico collega (trasferito in altra sede), al punto da farne un'ossessione. L'uomo si convince che al mondo “nulla va perduto, nessun evento, poiché tutto è registrato e chi desidera rievocare il passato, facendolo tornare indietro dai cieli alla terra, lo può fare volgendo il suo pensiero a un dato avvenimento trascorso” che intende così rivivere. Questa convinzione, inizialmente innocua, determina un'involuzione mentale dell'uomo, stimolata da strane visioni e soprattutto da un evento traumatico (lo scontro frontale di due treni) che lo porta a desiderare di rincontrare una donna di cui si è pazzescamente innamorato baciandola sulle labbra. Attenzione però, il protagonista non ha baciato una donna consenziente, ma la testa mozzata della stessa ovvero il macabro trofeo raccolto sul selciato della stazione nell'immediatezza di un disastro ferroviario. Pazzesco il finale, uno dei più neri che mi sia mai capitato di leggere. Grabinski concepisce un epilogo che lascia esterrefatti, sfruttando in modo originale sia l'archetipo della sirena (da intendersi in senso lato) sia il tema della dissociazione mentale che porta all'annullamento della volontà dell'uomo (che si sdoppia in più figure, avviene la stessa cosa ne La Vendetta degli Elementi). Due racconti, questi ultimi, bellissimi, quanto crudeli. Interessante valutare il rapporto distorto con la figura femminile che si percepisce da queste letture (probabile reminescenza del rapporto fallimentare con la moglie, così traumatico da portare Grabinski a disinteressarsi del sesso femminile sulla scia del coevo Lovecraft). Si potrebbe, a mio modo di vedere, azzardare la sussistenza di alcuni tratti misogini evidenziati dal ruolo ricoperto da queste donne. Grabinski prende la figura di Eva (citata all'inizio de L'Amante di Szamota), la modernizza e la va a traslare su creature che altro non sono che delle predatrici sessuali. In entrambi i casi la donna è la via che conduce l'uomo alla perdizione, alla disfatta. Al posto della mela, Grabinski inserisce l'attrazione erotica e la carica sensuale, il corpo e la seduzione come frutti proibiti, il resto è presto fatto con delle donne che volontariamente fanno quello che fanno per il gusto di “infettare” il malcapitato e ingenuo passante, talvolta per alimentare la propria bellezza e farla sopravvivere come in un diabolico patto di wildiana (o narcisistica) memoria. Ne sono evidente dimostrazione i più espliciti L'Amante di Szamota e A Casa di Sara, entrambi del 1922, in cui il rapporto amoroso, verrebbe da dire carnale, diviene il vero e unico fulcro della storia. Se nel primo racconto Grabinski propone un soggetto più impersonale, nel secondo emerge in modo netto quanto abbiamo già accennato. La donna viene definita “un idolo maligno, odioso eppur sempre allettante, a cui si deve soccombere... una sorta di suggestione ipnotica” che induce l'innamorato a bramare l'oggetto del desiderio (sessuale) anche quando la stessa non si trova al suo cospetto. Un'ossessione che porta a vivere spaesati, disinteressandosi di tutto quanto prima aveva sempre catturato l'attenzione, trasformando così soggetti attivi in individui passivi sovrapponibili agli attuali drogati storditi dall'essenza dello sballo. Così in A Casa di Sara il protagonista cerca di spiegare al medico che lo visita che, alla stregua di un vampiro, “la donna lo deruba di ogni forza vitale”: “Assorbe la mia vita entro di sé... la gioventù della mia vita". Alla stessa maniera ne L'Amante di Szamota, più elegante per la cura nelle descrizioni scenografiche (e anche più romantico), l'innamorato finisce per invecchiare da un giorno a un altro, dopo essersi unito per oltre un anno con una donna bellissima che però non trova mai in giro per il paese e che, alla fine, scoprirà esser assai particolare. Terribile e ben resa la rivelazione finale con, ancora una volta, chiara rasoiata necrofila che sarà difficile da dimenticare per chi legge. Non mancano momenti macabri nel più originale A Casa di Sara con una bellissima scena di smaterializzazione del protagonista che viene, di fatti, assorbito dal corpo della moglie quasi centenaria, eppur giovane e assatanata come una trentenne, sempre in caccia di nuove prede da conquistare col frutto proibito della passione, così da mantenere la propria bellezza a discapito dell'amato. Una sorta di rivisitazione dell'accoppiamento della mantide religiosa, se mi concedete il paragone. 

Divergono rispetto al resto dell'antologia, per struttura e tematiche, La Storia del Becchino e Il Bianco Lemure. Si tratta di due racconti horror che ben avrebbero potuto comparire nei pulp magazine americani dell'epoca. Il primo testo è ambientato curiosamente in Toscana, nell'immaginifica Foscara (un omaggio forse all'Università Ca' dei Foscari di Venezia, città in cui Grabinski passerà una delle più felici vacanze sul finire degli anni venti). In questo racconto l'autore si avvicina alle tematiche squisitamente weird con un chiaro omaggio a Poe (La Sepoltura Prematura). Per l'occasione si abbandonano le ossessioni mentali per orientarsi su un orrore esterno, che arriva da un altro paese con la figura dell'estraneo che si presenta in una città di campagna dove nessuno lo conosce. Ancora una volta fanno da cornice delle belle scenografie in cui vengono incastonate tematiche diverse. Si parla di demonologia (con un cimitero in cui gli spiriti dei defunti si ribellano per la presenza di statue, sculture e lapidi costruite in modo ambiguo così da avere una seconda lettura in onore a Satana e alle creature della notte), ma anche di un personaggio, il misterioso becchino scultore, che per ovvie ragioni (un antesignano del Darkman di Raimi) vaga con un'aderente maschera di cera applicata al volto (fatta in modo tale da sembrare una faccia umana) per celarne la vera natura. Grabinski caratterizza questo soggetto con cenni e comportamenti, a sua volta ambigui, che conferiscono al becchino scultore un'aura demoniaca, ma soprattutto misteriosa ed enigmatica, senza che faccia niente di veramente deplorevole (a parte le sculture). Chi diavolo è questo uomo...? Ed è davvero un uomo, dato che i suoi unici due figli sono nati con delle assurde deformazioni fisiche che li hanno portati a morte prematura? La risposta a queste domande non può che essere, a sua volta, ambigua. Più convenzionale di altri, rimane una gradita lettura macabra specie per il finale Edgarallanponiano che probabilmente ha contribuito a convincere il critico polacco Karol Irzykowski a “battezzare” Grabinski come il “Poe Polacco”. 

Si passa alla criptozoologia (anche se in realtà i lemuri erano creature mitologiche romane simili ai vampiri, tese a rappresentare le anime di uomini deceduti per morte violenta che non hanno trovato la pace nell'aldilà) con Il Bianco Lemure, una creatura in parte scimmia e in parte rospo che vive all'interno di un camino aggredendo e sbranando gli spazzacamini che vengono chiamati a pulirlo. Finale, per una volta ottimista, con la lotta nel buio del camino tra la bestia e un coraggioso ragazzo calato nell'oscurità alla ricerca dei due amici scomparsi. Grabinski chiude la storia ritornando alla tematica della dissoluzione corporea del mostro alla luce del sole, proprio come per i vampiri, così da riportare l'elaborato dalle parti della narrativa soprannaturale piuttosto che prettamente fantastica.

Questo il contenuto di un testo che, a suo modo, fa la storia dell'editoria del genere fantastico in Italia, proponendo per la prima volta un volume interamente dedicato a un autore che meritava di esser riscoperto e che si spera possa ritornare, magari anche con un romanzo, a solcare l'impetuoso mare dell'editoria. Inutile dire che ne consigliamo l'acquisto nonostate un prezzo non proprio economico. Consigliato a tutti gli amanti della narrativa del terrore, compresi quelli che prediligono tagli commerciali. Sia chiaro i testi qua non sono superficiali, ma la scarsa pesantezza dello stile e, soprattutto, dei finali graffianti, a mio modo di vedere, rendono usufruibile il testo a una più ampia cerchia di pubblico rispetto al fedele zoccolo duro di appassionati e di studiosi del genere. Ancora complimenti alla Hypnos con l'invito a perseverare su questa strada.

Stefan Grabinski.

"Sogno e veglia! Sogno e realtà! In quale assoluta confusione si confondono, con che furia si scontrano sui crocevia del penisero! Uno di essi, malevolo oltre ogni umana misura, ha rimosso ogni segnale di frontiera e cancellato, fra l'uno e l'altra, ogni confine; scomparsa senza traccia ogni barriera. E regna ora suprema l'illusione, folle sovrana dei percorsi randagi e delle vie maestre."

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