Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

lunedì 31 ottobre 2016

Recensione narrativa: LA LUNGA MARCIA di Stephen King (Richard Bachman)



Autore: Stephen King (con pseudonimo di Richard Bachman).
Titolo Originale: The Long Walk.
Anno: 1979
Genere: Drammatico / Fantascienza Distopica.
Editore: Oscar Mondadori.
Pagine: 222.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Gianni Morandi, uno che per un suo famoso pezzo si vide calare contro la mannaia della censura, cantava: "Uno su mille ce la fa". King e l'organizzatore del grande evento che da il titolo a questa fatica sono meno crudeli e si accontentano di scrivere: "Uno su cento ce la fa!" Questa la premessa più scontata e immediata di questo romanzo breve datato 1979 e uscito, col titolo originale di The Long Walk, a nome di un tale Richard Bachman. Seconda opera dunque, quanto meno stando al nome, che esce due anni dopo Rage (da noi Ossessione, iniziato in realtà nel 1966 e finito nei primi anni '70), storia che vede una scolaresca in balia di uno studente che ha ucciso la maestra e tiene sotto scacco la polizia. In realtà, dietro al progetto c'è un soggetto che all'epoca è già considerato un maestro, solo che i lettori non lo sanno. Il nome Bachman, per ragioni commerciali (sembra per non inflazionare il mercato e per permettersi soggetti sperimentali), cela il terribile trentaduenne Stephen King. Scrittore giovanissimo, ma con già all'attivo sei romanzi (uno firmato Bachman) quasi tutti capolavori assoluti nella sua produzione ovvero: Carrie (1974), Le Notti di Salem (1975), Shining (1977), L'Ombra dello Scorpione (1978) e La Zona Morta (1979), questi ultimi due non ancora editi in Italia. Un nome già conosciuto a Hollywood, anche se non ai livelli odierni, per aver visto trasposto Carrie per la regia di Brian De Palma e Le Notti di Salem in una versione televisiva non troppo riuscita e scelleratamente tagliata, tanto da portare il regista Tobe Hooper quasi a disconoscerla. 
Il romanzo uscirà molto tardi in Italia, grazie alla mitica collana Mondadori Urania, che lo farà uscire il 21 luglio del 1985 a firma Bachman. Abbiamo detto in premessa "Uno su Mille ce la fa" e infatti esce, curiosamente, col beffardo (per l'occasione) 1.001, successivamente al gemello Running Man da noi L'Uomo in Fuga, scritto da Bachman/King nel 1982 ma uscito in Italia (sempre nella collana Urania) il 22 gennaio del 1984 e strutturato, ancora la cifra di testa a ritornare come una maledizione scoccata da un demone kinghiano, in 101 capitoli a suggerire un tremendo count-down come quello che caratterizzerà i protagonisti del romanzo qui in esame.

King, ha rivelato, scrive il romanzo tra il 1966 e il 1967, quando è matricola all'università. Ha appena compiuto venti anni quando ultima la stesura. The Long Walk è così da ritenersi la prima vera opera completa scritta da King e la cosa ci pare non di poco conto, dato di chi stiamo parlando ovvero di un romanziere che sembra non finire mai la propria riserva di fantasie. Intervistato dai fan, King assicura di aver presentato il romanzo a un concorso narrativo per opere prime, ma di esserselo visto rifiutato per quella che assume la veste della solita e immancabile (in queste storie dei grandi maestri) toppata da calci. La reazione dell'asso del Maine fu semplice: volume chiuso in un cassetto e arrivederci alla prossima occasione. Occasione però che tarda a venire. Passano infatti più di dieci anni. Le premesse si creano in virtù di una richiesta dell'editore che aveva pubblicato il successivo Rage (altro romanzo giovanile rispolverato per far cassa), che propone all'autore la pubblicazione di un ulteriore romanzo. King, senza tanto perder tempo, rispolvera The Long Walk e lo manda sul mercato.

Per dare verosomiglianza all'autore fittizio, viene creato un profilo fantoccio, una fantomatica vita e persino una foto pubblicata all'interno della copertina de L'Occhio del Male (1984). Bachman sarebbe un ex guardia di New York, con dieci anni alle spalle nella marina mercantile ma ormai datosi all'attività di fattore e di scrittore notturno. King ne colora in modo macabro il passato, affibbiandogli un figlio, unico peraltro, deceduto in un pozzo all'età di sei anni e una malattia degenerativa cerebrale tanto grave da richiedere un'operazione finalizzata a rimuovere un tumore dal cervello. Quando in Italia esce La Lunga Marcia, Bachman viene dato per morto e negli Stati Uniti inizia a serpeggiare il nome del vero autore.

La prima uscita del testo, complice una distribuzione non ai livelli dei volumi ufficiali, non da risultati notevoli e il riscontro economico, come gli altri firmati Bachman, è tutt'altro che fenomenale. Esce subito in formato tascabile per "riempire gli espositori dei supermercati", come ricorda King, senza grande cura nella copertina e nella scelta del volume. Dunque uno di quei testi che vengono dati alle stampe senza pretese, mandati quasi al macello senza prefissarsi obiettivi di livello. Partenza dunque in sordina, ma vendite in crescita al passare degli anni con un fedele zoccolo duro di scrittori interessati alla penna di mister Bachman. Un dato però fa riflettere. Il volume L'Occhio del Male, il più venduto degli iniziali cinque associati a Bachman, arriverà a vendere 28.000 copie, una cifra senz'altro poco entusiasmante se paragonata alle prime stampe griffate King e soprattutto se confrontata all'esplosione a 280.000 una volta corredata del nome "Stephen King". Ennesima dimostrazione di quanto un nome, piuttosto che il contenuto, incida sulle vendite e sul marketing.

STEPHEN KING
ai tempi universitari.

Passiamo ora alla trama. Soggetto semplice, mi verrebbe da dire essenziale, ma assai meno banale di quanto potrebbe apparire a una prima analisi, merito di caratterizzazioni interessanti, specie per l'epoca. Tutto ruota attorno a una corsa che vede dichiarati partenti cento concorrenti, adolescenti di sesso maschile, impegnati in una gara podistica di resistenza dove non è previsto alcun traguardo dichiarato e dove vince non colui che arriva per primo, bensì il superstite che per ultimo cede rispetto alle regole che governano la manifestazione. Le regole non sono molte: si deve mantenere una velocità di sei chilometri orari, non si deve tentare la fuga, non è permessa alcuna interruzione neppure per i bisogni fisiologici. La violazione di queste semplici regole comporta un'ammonizione che può essere ripetuta decorso un tempo fissato a tavolino nel caso in cui l'ammonito non provveda, nel frangente tra l'ammonizione e il tempo utile ad adeguarsi, a riprendere la velocità minima di sei chilometri orari. Ogni ora, da calcolarsi rispetto all'ultima ammonizione subita, i concorrenti beneficiano, se ammoniti in precedenza, della cancellazione di un'ammonizione. Raggiunte le tre ammonizioni si entra in un clima diffida che porta, in caso di ulteriore violazione, al "congedo".
A vigilare sul rispetto delle regole c'è un autoblindo su cui svettano degli apatici militari armati di fucile, che presiedono il tutto senza tradire alcuna emozione di sorta. Ogni congedo viene salutato da una raffica di mitra che attinge lo sventurato consegnandolo alla leggenda della corsa.
Ma chi potrebbe mai partecipare a una corsa del genere? Verrebbe da citare l'inizio di Rush di Ron Howard: Pazzi, Ribelli, Sognatori...Persone che farebbero qualunque cosa per correre e che sono disposti a perdere la vita per farlo... o forse, più semplicemente, reietti, soggetti alla ricerca di emozioni forti, altri che intendono punire findanzate che li hanno traditi o madri che non li hanno considerati a dovere ovvero annoiati che, inconsapevolmente, cercano nella corsa un motivo di interesse per destarsi dall'anonimato che compone i vari elementi che si annullano nella folla della quotidianità che fa da corncie alla prova. Il premio c'è, quasi illimitato, garantito dal Maggiore, un fantomatico ufficiale che si atteggia a organizzatore della manifestazione e che viene associato, da molti, a una sorta di dittatore che governa gli Stati Uniti in cui è ambietato il romanzo. Un'epoca futura, non ben specificata ma probabilmente immaginata non troppo lontana. King non si interessa molto al contorno della vicenda, per quel che mi riguarda diventa difficile persino catalogare il romanzo come fantascienza distopica. Quindi i corridori da una parte, i controllori dall'altra e nel mezzo una folla malata che si accalca sulle strade, brama e tifa per i propri beniamini e attende i congedi come momento topico che va a ravvivare una prova altrimenti monotona. La crudezza e la brutalità della corsa come motivo di interesse, di scommesse che fioccano a grappoli e fanno della Lunga Marcia un evento paragonabile, per interesse, a un superbowl.
King non tratteggia questa società distopica, non è suo interesse. La storia è una mera etremizzazione per parlare della contemporaneità, per questo ritengo il romanzo drammatico piuttosto che fantascientifico. L'autore avrebbe infatti potuto parlare del tessuto politico, ma questo è del tutto residuale e marginale. L'intero narrato si rivolge alla corsa, quasi come se fosse una cronaca offerta da una microcamera conficcata negli occhi del protagonista, il sedicenne Ray Garraty. King cerca di sviscerare i motivi che spingono questi ragazzi a candidarsi volontariamente a una prova che è un autentico massacro, ma a cui pervengono ogni anno così tanti iscritti da avere decine e decine di candidati riservisti pronti a soddisfare le richieste di una massa di spettatori che li reclama per il proprio divertimento. In seconda battuta, e questa è la parte migliore del testo, King caratterizza gli spettatori in modo duro, ma non troppo lontano dalla realtà. Li presenta come un orda famelica e affamata che attende la morte dei corridori come per cibarsi del coraggio (o follia) altrui, quasi a volerlo introiettare per sopperire a una scarsezza di fondo, o per soddisfare il proprio disagio trovando soddisfazione nel verificare il fallimento altrui, la morte dei (presunti) eroi che cadendo fanno sgretolare l'aura di superuomini riqualificando, quanto meno in parte, quella delle c.d. persone banali che compongo la folla. "I francesi scopavano dopo aver visto ghigliottinare qualcuno. Gli antichi romani si rimpinzavano durante le lotte dei gladiatori. E' uno spettacolo, un divertimento, non c'è niente di nuovo sotto il sole."

King condisce il tutto con dialoghi esilaranti, talvolta sconci, che sembran scritti da Quentin Tarantino dei giorni d'oggi e che sono impreziositi da un'ironia macabra a tratti davvero cattiva. Un connubio tra ilarità, innocenza adolescenziale e crudeltà di una prova che è un massacro che assume i tratti di una condanna infernale al progredire dei giorni di marcia (si arriverà a cinque giorni ininterrotti di corsa, con scarpe che si rompono, ferite che si aprono sui piedi, crampi e difficoltà a evacuare rifiuti solidi umani). Eloquente questo passaggio in cui, sentendo un partecipante urlare circa i propri piedi, il protagonista, anche lui affaticato, chiede perché non la smetta di gridare, ma un altro concorrente gli fornisce una spiegazione alquanto chiarificatrice: "Non credo che possa smettere... Le ruote posteriori del carro gli sono passate sulle gambe!"
Non manca il crisma dell'autore che porta il lettore a familiarizzare con molti dei concorrenti, in modo da far sorgere una sorta di affezione che renderà così molto più straziante il congedo. Il protagonista stringe di fatti una sorta di accordo tacito per aiutarsi a vicenda con alcuni compagni ("I Moschettieri"), sarà infatti più volte salvato da un avversario che poi cederà nelle ultime parti del romanzo (quasi a ricordare la figura di un gregario di ciclistica memoria), mentre c'è chi cerca di mandare in paranoia gli avversari o di danneggiarli lavorando sul piano psicologico. Del resto la morte altrui, qua, equivale alla vita propria per quella che è una prova contraria a tutti i valori umani e che è funzionale a far emergere il lato bestiale insito nella natura umana.

La copertina della I edizione
in Italiano.

Alla fine ne esce fuori un romanzo, di circa 220 pagine, scritto in modo scorrevole, non ricco di colpi di scena e di snodi che vadano a sorprendere il lettore, che funge quasi da metafora di vita. La presenza dei militari fa inoltre sorgere l'immagine di un vero e proprio plotone mandato al massacro del "gioco" della guerra, qua rappresentato da una lotta contro gli altri e contro la fatica e il dolore fisico. Dunque legami che si creano con persone che sono destinate, per accordo preso alla partenza, a morire. Sembra un po' una sorta di metafora della vita, dove chiunque si incontra è destinato, prima o poi, a morire. Ecco allora che durante la marcia i protagonisti si interrogano sul senso della vita e su come questa debba essere affrontata. "Meglio vivere alla giornata, è questo che cerco di farvi capire. Se tutti la pensassero così, sarebbero molto più felici" dice un concorrente.

Bello l'omaggio al racconto La Folla di Ray Bradbury, il pubblico infatti ha la stessa caratterizzazione della folla del racconto di Bradbury. Diviene personaggio indistinto e aggiuntivo, che assiste allo spettacolo come potrebbe fare oggi uno spettatore di un reality show per vedere chi è il soggetto che sta per essere eliminato. Il valore della vita viene così a perdere ogni sostanza, anche da parte degli stessi corridori che, il più delle volte (specie nella prima parte di gara, quando si illudono di far parte di un gioco), commentano i vari congedi con leggerenza  e senza far troppo caso, ignorando che presto toccherà a ognuno di loro quella sorte.

Molto più originale di altri romanzi di King, fresco e di veloce lettura. Senz'altro superiore a L'Uomo in Fuga, pur poggiando su un soggetto meno strutturato per quel che concerne gli sviluppi e l'imprevedibilità. Consigliabile e non del tutto kinghiano. Stendo qui di seguito alcune considerazioni riservate a chi abbia letto il romanzo. Dunque ATTENZIONE SPOILER.

Una nota a parte va all'epilogo. King avrebbe potuto chiudere il romanzo in modo lineare, invece alla fine cerca di smuovere il lettore offrendo una parte finale aperta a più interpretazioni. Si tratta di uno stratagemma che da maggiore sostanza al testo, rendendolo più affascinante e dando vita a una serie di interpretazioni che portano gli appassionati a confrontarsi e, a loro volta, a fantasticare magari dando un senso totalmente diverso persino all'intero narrato. Vediamo infatti il vincitore, barcollante e ormai privo di forze, avanzare mentre il Maggiore con la sua camionetta gli si para di fronte per andarsi a complimentare. Il vincitore però, davanti a se, vede anche un altro soggetto che è convinto di conoscere molto bene. Inizialmente pensa che possa a essere un corridore che lo precede e che non è riuscito a superare, avanza ancora poi alla fine, quando una mano si posa sulla sua spalla, trova di nuovo la forza di mettersi a correre. Perché un finale così aperto dove il protagonista potrebbe aver visto davanti a sé qualunque cosa, da una visione dettata dalla fatica a un concreto concorrente ancora da battere per non parlare di figure di impianto metaforico (tipo la morte che fa cenno anche all'ultimo rimasto di seguirla, così come già successo ad alcuni precedenti vincitori deceduti a seguito dei traumi e delle ferite riportate a seguito della corsa)? Semplice, perché questo rende il tutto più affascinante. King, nell'ultimo capitolo dove strizza l'occhiolino ad Alice nel Paese delle Meraviglie di Carroll, gioca a mescolare le carte. Sappiamo che il protagonista non conosce, di fatto, il proprio padre, perché è stato portato via dalle "squadre", una sorta di gruppo sulla falsa riga delle camicie nere, e sparito nel nulla. Si trova alla fine a competere con un rivale, quello che in partenza sembrava il meno pericoloso e che ha corso per tutto il tempo all'estrema retroguardia, che gli rivelerà di esser figlio proprio del maggior, spiegando così la motivazione della propria corsa: "Io sono il coniglio... Li hai visti quei coniglietti meccanici grigi che i levrieri rincorrono nei cinodromi. Per quanto i cani corrano, non riescono mai a raggiungerlo, perché non è un vero coniglio, ma solo una sagoma attaccata a un bastone collegato a un mucchio di ruote e ingranaggi... Il maggiore ha fatto di me il suo coniglio perché i cani corresero più veloci e andassero più lontano." Eppure, sebbene parli di esser il coniglio, per tutta la corsa è sempre rimasto in fondo...
Curioso poi constatare come il soggetto di cui sopra muoia dopo che il protagonista lo ha toccato sulla spalla ("gli posò una mano sulla spalla"), proprio dopo aver visto qualcuno che conosceva come conosceva sé stesso e che, piangendo, gli faceva cenno nel buio più avanti. A vittoria conseguita sarà lo stesso protagonista a sentirsi calare una mano sulla spalla, proprio mentre cerca di decifrare questo oscuro personaggio da lui conosciuto ma non decifrato, che avanza verso di lui insieme al maggiore ("Una mano sulla spalla. G. la scosse via con impazienza. La figura indistinta lo chiamava, gli faceva cenno di camminare, di andare a giocare la partita. Ed era tempo di cominciare. C'era ancora tanta strada da fare. E quando la mano gli toccò di nuovo la spalla trovò chissà come la forza di mettersi a correre"). Finale enigmatico che fa guadagnare punti all'opera. Chi diavolo ci sarà davanti?


L'odissea dei partecipanti
alla competizione agonistica
LA LUNGA MARCIA.
In primo piano il Nr. 47
ovvero RAY GARRATY
il protagonista del romanzo.

Il maggiore rise e gli batté su una spalla: "Mi fa piacere conoscere qualcuno che salta sulle braci ardenti per correre!" 

mercoledì 12 ottobre 2016

Recensioni Narrativa: IL PROCESSO di Franz Kafka.



Autore: Franz Kafka.
Anno: 1925.
Genere: Satirico/Grottesco.
Pagine: 215+20.
Prezzo: variabile a seconda delle edizioni.

A cura di Matteo Mancini.
Dopo aver riletto il pessimista 1984 di George Orwell passiamo a un altro romanzo che fa del pessimismo e dell'ineluttabilità del controllo da parte del potere con conseguenziale perdità della libertà dei singoli il suo centro preminente. Un'opera, a differenza di quella di Orwell, caratterizzata da un'intelaiatura realistica e contemporanea, ma con un alone onirico che la rende, soprattutto per la caratterizzazioni dei personaggi, allucinata ed estraniante. Un'opera, altresì, che accenna, suggerisce a livello subliminale ma non spiega, a differenza invece di 1984 dove la follia del potere trova una giustificazione e le colpe del protagonista sono evidenziate e represse. Da qui una crudeltà di fondo, in Kafka, addirittura superiore a quella di Orwell, peché la condanna arriva senza che se ne capisca il motivo e dunque senza che ci si possa redimere o, ancor meglio, umiliare.
Il testo, assai tribolato nella sua realizzazione e ancora incompleto, vede la luce dieci anni dopo la prima stesura, nel 1925, grazie all'impegno di un tale Max Brod, amico fraterno dell'autore, che si prende incarico di pubblicare una serie di testi di Kafka rimasti inediti. L'autore è infatti morto di tisi già da un anno e ha dato incarico all'amico, nonché biografo, di curare i propri testi.
La trama la conoscono un po' tutti. Assistiamo al calvario, dapprima farsesco, quasi comico e poi via via sempre più tragico in cui si trova, suo malgrado coinvolto, un trentenne procuratore di banca che una mattina viene dichiarato in arresto (ma non limitato nella libertà personale) da alcuni loschi figuri alle dipendenze di un fantomatico tribunale parallelo a quello riconducibile al Palazzo di Giustizia e che ha ramificazioni e collaboratori, più o meno segreti, sparsi in ogni luogo. L'uomo, tale Josef K., non sarà mai informato circa la sua presunta colpa e si troverà costretto a difendersi da un'accusa di cui nessuno sembra conoscerne i termini e le natura. Una situazione dunque dove ogni difesa e ogni garanzia di difesa vengono calpestate e rese impossibili (non a caso gli avvocati non possono assistere agli interrogatori dei propri clienti) e dove il processo non può mai avere fine (anche un'eventuale assoluzione altro non sarebbe che una decisione temporanea). Inevitabile la condanna finale, anche perché Josef K rinuncia a ogni tentativo di corruzione che gli viene suggerito di compiere da personaggi assurdi e sopra le righe, in quanto ritiene di essere innocente e che si stia montando contro di lui un vero e proprio complotto che intende far venire alla luce.
Si renderà però presto conto di esser entrato quale attore protagonista di un vero e proprio teatro delle assurdità, esaltato da udienze che si tengono all'interno di caseggiati popolari periferici tra vere e proprie schiere di spettatori che danno la netta impressione di far parte di un'associazione segreta ("Il signor giudice ha appena fatto, qui accanto a me, un segno segreto a uno di voi" commenta spazientito K durante uno dei suoi monologhi difensivi). Un mondo sotterraneo, anche se sarebbe il caso di definire "aereo", in cui il tribunale si snoda tra cancellerie confinate nei solai di palazzi decadenti, sfruttando apporti di pittori squattrinati ma influenti ai fini dei giudizi (tanto che è proprio un pittore a fornire la spiegazione dei procedimenti al protagonista e non un avvocato, così che lo stesso arriva a dire di é stesso: "spesso queste cariche non riconosciute sono più importanti di quelle riconosciute") e di giudici vanitosi che si fanno immortalare in dipinti alla stregua di divinità. Un ruolo centrale viene poi offerto alle donne, non con qualche punta misogena. Le vediamo infatti caratterizzate come civettuole di facili costumi che gravitano di continuo intorno al protagonista, che va subito in "brodo di giuggiole", quasi a voler simboleggiare la corruzione della purezza del protagonista.
"Non c'è dubbio che dietro a tutte le manifestazioni di questo tribunale vi sia una grossa organizzazione!" capisce presto K senza però arrivare a comprenderne la natura e il fine. Si intuisce un certo senso manipolatorio che caratterizza questa organizzazione che studia e mette alla prova le persone per poterle indirizzare a suo piacimento. "Avete formato dei finti partiti, uno dei quali mi ha applaudito per mettermi alla prova, volevate imparare come si seducono degli innocenti!" Tuona K durante la prima udienza, dopo essersi reso conto di esser circondato da una folla di uomini attempati ("Erano uomini anziani, alcuni avevano la barba bianca. Forse erano loro quelli che decidevano, che potevano influenzare tutta l'assemblea") sui cui vestiti brillavano particolari distintivi e che davano l'impressione di comunicare mediante cenni precodificati. "Ai baveri delle giacche luccicavano distintivi di ogni misura e colore. Per quanto si poteva vedere, tutti avevano questi distintivi. Tutti erano della stessa banda... e quando K si voltò di scatto vide gli stessi distintivi al bavero del giudice istruttore, che, le mani in grembo, guardava giù tranquillo." Credo che per la compresione del testo questi siano passaggi cardinali che evidenziano la presenza di un'organizzazione occulta che detta indirizzi  e influisce sugli uomini di un certo prestigio (si noti che il protagonista, Josef K, è un banchiere ovvero un rappresentante di spicco del potere economico).

FRANZ KAFKA.

"Qualcuno doveva aver calunniato Josef K, perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato" questo l'incipit di un romanzo che veste presto i panni di un incubo claustrofobico dove il risveglio è un sonno che non vedrà mai fine. Su questo romanzo, volutamente ambiguo e criptico (si veda il bellissimo penultimo capitolo), si è scritto di tutto. Non è certo compito di questo recensore andare nel profondo o fare una carrellata delle varie chiavi interpretative. Mi limiterò solo a fare delle considerazioni personali. Il romanzo è senz'altro un'allegoria che denuncia, più che l'amministrazione della giustizia in sé e per sé, l'esistenza di certi poteri occulti che muovono la società e decidono il destino delle persone sacrificate alla stregua di pedine di un gioco oscuro di cui non è possibile intuire logica o ragione. Kafka sottolinea come al cospetto di una simile autorità, parallela a quella ufficiale ma molto più potente di essa e spesso coincidente (dato che vi sono soggetti dell'autorità ufficiale che si ritrovano in quella occulta), non vi è possibilità alcuna né di difendersi né di instaurare un rapporto paritario o finalizzato a chiedere lumi interpretativi al fine della comprensione del sistema. Chi è estraneo o appartiene a un rango inferiore non ha facoltà di incidere sulla propria posizione né di fare domande. Si intuisce così l'esistenza di una struttura a carattere piramidale dove neppure i livelli inferiori conoscono le logiche e le ragioni dei livelli superiori, figurarsi gli estranei. 
Centrale è la parabola del Guardiano e dell'uomo venuto dalla campagna (da leggersi, probabilmente, come il non studioso inidoneo a varcare il portale in quanto non pronto, a cui il guardiano urla sempre: «NON ORA!») che vorrebbe entrare nel tempio della legge (qualcuno lo interpreta come l'accesso al mondo divino, trascendente, che resta oscuro all'intelletto e all'esperienza umana), a sua volta strutturato a livello piramidale con una serie di porte che ammettono a conoscenze superiori che sono vigilate da un guardiano distinto dall'altro (e sconosciuto ai guardiani precedenti che, a loro volta, non sanno cosa vi sia oltre). Josef K ascolta la parabola all'interno di una cattedrale, deserta come il palazzo di cui alla parabola, raccontata da uno strano sacerdote che alla fine gli dirà: "Cerca prima di capire tu chi sono io." Che sia proprio lui uno dei guardiani di cui alla parabola?

Lento, lentissimo, ma molto affascinante e angoscioso. Il finale un po' sommario (incredibile l'atteggiamento ormai remissivo del protagonista che accetta di capitolare al cospetto di una condanna da cui non è ammessa fuga perché sconosciuta e dunque tale da non potervi sfuggire), a mio avviso, risente del fatto che si tratta di un'opera semi-incompiuta e uscita postuma, aspetto quest'ultimo che si nota in un'innegabile frammentarietà che si respira, tra un capitolo e un altro, in svariate parti del romanzo non sempre perfettamente raccordate tra loro. Inutile dare consigli o meno di lettura, trattandosi di un classico della narrativa mondiale. Posso solo ammonire dalla lettura coloro che cercano testi di pronta soluzione e strutturati attorno a una trama chiara e centrale. Qua si va e si deve andare (nell'interpretazione) oltre al testo, leggere tra le righe e trovare risposte che giustifichino una storia altrimenti folle e delirante. Con Il Processo Kafka voleva si angosciare il lettore, ma anche fargli porre una serie di domande su cui discutere come il protagonista al cospetto del sacerdote, mentre disquisiscono sul senso della parabola del Guardiano e dell'Uomo di campagna.
Classicissimo. 

Una sequenza dell'adattamento curato da
ORSON WELLES nel 1962.

"Se ti attira tanto, prova dunque a entrare, nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E non sono che l'ultimo dei guardiani. Di sala in sala, però, ci sono altri guardiani, uno più potente dell'altro. Già del terzo non riesco più nemmeno io a reggere la vista."